Il cibo da strada ha un fascino speciale, secondo me. E’ un cibo che racconta di persone, oltre che di luoghi. Di gesti ed abitudini. Già, perché seduti a tavola – diciamolo – siamo tutti uguali. Buone maniere e galateo, nei limiti del possibile, e piatti e posate. Mangiando in strada, invece, tutto cambia. Cambiano i cibi, innanzitutto, che devono essere comodi da trasportare e sbocconcellare con una mano sola (l’altra, di solito, è impegnata a mantenere il cartoccio). Ma cambiano anche le tecniche di cottura e gli accostamenti tra gli ingredienti: cambiano a seconda dei luoghi e delle latitudini, e questo rende – per fortuna – possibile la sopravvivenza di atmosfere e gesti quasi dimenticati. Già, perché se il sapore è forse riproducibile anche in casa, non lo sono certo le abitudini legate a questo. E le sorprese: perché mangiare in strada, spesso, assomiglia ad una scoperta. Molte volte, infatti, ci si ritrova a farlo al fianco di perfetti sconosciuti e il cibo, si sa, predispone alla socialità: in strada, mangiare e parlare, diventa tutt’uno (in barba al galateo, che vieta alle due cose di accadere contemporaneamente) per cui cibarsi non è più solo *un atto agricolo* ma diventa un atto sociale. Che predispone alla scoperta di noi stessi e degli altri. Ecco, mangiare in strada spesso è proprio questo: arrendersi ad una scoperta che non è fatta solo di sapore, ma anche di conoscenza di persone e di luoghi.
Ecco perché qualunque viaggio, in qualunque posto, non può prescindere da qualche pranzo a base di cibo di strada: facile, in quella atmosfera fatta di bocche e bicchieri pieni, trovare qualcuno disposto a raccontare cose che sulle guide non troverete mai ma che costituiscono l’anima del luogo.
Cose che, a saperle leggere, si scoprono anche nel cibo: la bombette di Alberobello, per esempio, racconta di un passato fatto di povertà e di tempi in cui le famiglie non potevano permettersi di sprecare legna e fuoco per una grigliata casalinga. E allora si ricorreva al fornello pubblico, era il macellaio del paese ad offrirlo, per far arrostire carne che veniva poi mangiata direttamente in strada o portata a casa per essere servita a tavola. Ancora oggi, nelle zone di origine è possibile gustarle direttamente in macelleria: un’esperienza da non perdere, se capitate da quelle parti.
Che, sicuramente, vi metterà voglia di provare a farle anche in casa.
BOMBETTE DI ALBEROBELLO
50 g di provolone non troppo stagionato (o caciocavallo, o anche pecorino o misto pecora: potete cambiare a seconda dei gusti)
5 fettine di capocollo di maiale (coppa) tagliate sottili
Prezzemolo (non ne avevo, ho usato origano fresco)
pepe nero
sale
L’esecuzione è semplicissima e veloce. Si battono velocemente le fette di carne per appiattirle (ne aiuterà la resistenza in cottura, oltre a renderle più sottili) e poi si cospargono con il formaggio tagliato a dadini e gli altri ingredienti. Si avvolgono quindi chiudendole *a bombetta* e si infilano in uno spiedino.
A questo punto, ci vorrebbe la carbonella: io mi sono accontentata della piastra di ghisa su gas.
Non è la stessa cosa, certo, ma aiuta a sognare di essere altrove.