Precisazione: questo, più che una ricetta del ragù di nduja è una cartolina. Da Capo Vaticano, per la precisione, dove sono in vacanza fino a domani (sigh!). In un posto molto carino, del resto, che vi consiglio proprio. Soprattutto in bassa stagione, come in questo periodo. A dieci minuti da uno dei mari più belli della Calabria, quello di Capo Vaticano, appunto, e a pochi km da Tropea (raggiungibile anche in treno, oltretutto, per chi decidesse di arrivare senza auto propria).
Questo, il colore del mare. Giusto per capirci.
Io vi lascio il link, perché davvero oltre ad essere un residence molto economico, offre davvero una sistemazione comodissima. E la famiglia che lo gestisce è di una cortesia unica, a disposizione persino per accompagnarmi in navetta per i piccoli giri in paese tipo bancomat o altro: il Residence Hotel La Taverna.
Sono in vacanza qui, dicevo, e l’altra sera a cena ci è stato servito un assaggio di specialità tipiche calabresi. Al centro del buffet, c’era lei: una nduja bellissima, preparata come una volta. Enorme – credo pesasse un paio di chili – , buonissima e dolce nonostante la piccantezza: non ho potuto resistere ed ho indagato. La preparano loro, in casa, e ne ho ordinato due chili da portarmi via. Come souvenir, certo, ma anche per me. Perché la nduja buona ormai è quasi introvabile. Quello che si trova in giro, spesso, ha ben poco della bontà originaria: preparazioni grasse e salate, che raccontano di procedimenti industriali che poco hanno lasciato del sapore originario.
Per chi non sapesse cosa sia, la nduja è uno dei più famosi salumi calabri. A base di peperoncino – tanto peperoncino – e carne di maiale. Tradizionalmente, viene insaccata nella parte cieca dell’intestino del maiale – orba, in dialetto calabrese- ottenendo così da luogo a “salami” di un paio di chili di peso. Sia questo, che la composizione, fanno sì che questo salume non arrivi a stagionatura come gli altri salami più piccoli – le soppressate, per esempio – ma resti cremoso all’interno, di una consistenza spalmabile. Per questo, viene utilizzato per preparare crostini, ma anche per insaporire sughi, uova fritte, minestre e ragù. Una specie di dado ante litteram, insomma: quando la fame era tanta e le cose da mangiare poche – e non sono passati molti decenni da allora, per lo meno in calabria – la nduja faceva la differenza. Un tocco di questa riusciva a dare un tocco particolare anche ad un semplice uovo fritto: si scaldava nella padella e vi si cuoceva l’uovo che ne prendeva il sapore. Poi, lo si rovesciava in un piatto dopo averne ricoperto il fondo con una fetta di pane. Oppure, nella minestra di fagioli. O, ancora nel ragu’ o nella zuppa di cipolle calabrese (la
licurdia). Quest’ultima, il mio uso preferito. Cipolle di Tropea cotte a lungo, fino a renderle crema e poi – a fine cottura – la nduja. Tanta: da rendere rosso il sugo. Ma non di pomodoro: peperoncino.
E poi, si salvi chi può.
Servono:
Due o tre cipolle di Tropea di media dimensione,
olio per soffriggere,
300 gr di ndjua in budello,
100 gr ca. di passata di pomodoro,
pecorino per completare.
Iniziare soffriggendo la cipolla in olio a fuoco dolce (preferibilmente in un tegame di coccio). Una volta che questa si sia ben imbiondita (ci vorranno una ventina di minuti) aggiungere la nduja e soffriggere ancora per una decina di minuti.
Aggiungere poi la passata (se necessario, disciolta in un po’ di acqua bollente) e portare a cottura a fuoco dolcissimo in un paio di ore o più.
Al momento di condire la pasta, completare il piatto con tanto pecorino.
Insomma, preparatevi ad una serie di ricette a base di nduja. Ma non oggi. Ho da fare: devo andare a fare l’ultimo bagno nel mare di Capo Vaticano… sigh!